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(al)La faccia della verità

 

Gino Carpi

La Fotografia come la Scrittura è uno strumento di espressione e la possibilità di esprimersi è indice di libertà. Una constatazione ovvia in una società che la riconosce tale.  In Sicilia non lo è, in Sicilia la libertà non è ancora un diritto (checché se ne dica) perché la libertà in Sicilia si deve pagare. E a caro prezzo, il cui valore nominale non è espresso né in euro né in nessuna altra divisa circolante: qui si paga in dignità, onestà e responsabilità. Non facciamoci ingannare dalle finte associazioni ambientaliste, culturali, artistiche o,  peggio, dichiaratamente apolitiche, dalle finte battaglie a favore delle categorie più deboli, dai proclami contro la mafia e le mafie; non facciamoci incantare insomma da tutto ciò che mostra una facciata di ineccepibilità e di sacro spirito puritano: con le dovute eccezioni nella maggior parte dei casi è solo farsa. La farsa di una sicilianità incancrenita che parte beffardamente proprio da uno Statuto di Libertà esemplare (progenitore della carta costituzionale della Repubblica Italiana) la cui sorte non è stata quella di formare il senso civico di un popolo bensì quella di essere strumento di elusione, vigliaccamente sostituito dalle regole non scritte di un effettivo sistema di potere che della farsa ha tutte le caratteristiche.

La Sicilia come la Calabria, la Campania e via di questo passo, potendo elencare quasi tutto il territorio italiano, ciò che emerge è questo fango, questo strato molle e nauseante che tiene sotto scacco il Paese.

Citando Roberto Saviano “Non siamo il Paese di Riina, ma quello di Falcone”, è proprio in questa terra di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, di Mario Francese e Pippo Fava, di Peppino Impastato e Libero Grassi, di Piersanti Mattarella e Pio La Torre che nascono e vivono le fotografie di Alberto Sipione, fotografo siciliano con un piede in Svizzera.

Per lui il  confronto è naturale, inevitabile e per questo doloroso, al punto che diventa necessario trovare la ragione delle cose, le cause di questo cancro contro il quale non esistono, all’apparenza rimedi. Un male che ha rovinato una delle cose che egli ama di più: la sua terra.

L’unico strumento che possiede è la Fotografia, compreso il bagaglio di esperienza sulle immagini che nel tempo ha coltivato, frequentando work-shop e atelier di grandi artisti, gallerie e libri, specie quei libri che con le immagini narrano e toccano il cuore. Alberto Sipione comprende quindi che egli già possiede l’arma con cui combattere, quella stessa arma che gli artisti di tutte le epoche hanno adoperato per opporsi alla storia, per cambiare il mondo con la loro sofferenza, rispondendo all’insopprimibile bisogno dell’artista di dover comunicare affinché qualcosa possa cambiare.

“La bellezza cambierà il mondo” scrivono i poeti ma nel nostro  caso non si tratta né di poesia né di bellezza. Le fotografie di Alberto Sipione mostrano il brutto raccontando una storia brutta, quella di Marina di Melilli, un tempo soprannominata la Baia degli Dei e oggi soltanto Natura Morta. Una storia svoltasi in un periodo (dagli anni ’60 in poi del Novecento) in cui si affermavano, di contro, parole come civiltà e progresso, lavoro e futuro, alle quali evidentemente non corrispondevano i significati lessicali o peggio venivano artatamente distorti, per confondere la gente, il popolo che non chiedeva altro che di poter vivere, solo di poter vivere del proprio lavoro.

Lo sapevano bene Salvatore Gurreri e sua moglie Ercolina Mori, che hanno lasciato in quel luogo la propria vita e il loro esempio.

Lo sa bene Don Palmiro Prisutto, Parroco della Chiesa Madre di Augusta che da quarant’anni conduce la sua lotta contro il male e che il giorno 28 di ogni mese ricorda tra i defunti coloro che sono morti per cancro, per intossicazione o per incidente causato dal benessere industriale, ostinandosi nella lettura di un lungo e amaro elenco di nomi che ogni mese si allunga.

L’artista Sipione non rinuncia a questa sfida, non gli importa se le sue fotografie non sono trendy o di mercato, egli vuole urlare il suo dolore e la sua rabbia per smuovere i sentimenti attaccando il cuore della gente per far capire che tutti devono far parte di questa squadra, di questa moltitudine che ha capito e solo allora, quando questo sentimento diverrà davvero universale, quando tutti avranno veramente compreso, sarà la fine delle brutte storie. Perché di storie come questa ce ne sono ancora tante, troppe.

Gli scenari narrati da Sipione non hanno colori, non potrebbero, tendono al cupo perché cupo è il racconto. Sono scene entro cui si muovono i fantasmi di coloro che in quel luogo hanno vissuto e amato, che in quel luogo hanno semplicemente mangiato e dormito al cospetto di una  spiaggia che un tempo era la Baia degli Dei. Di coloro che lì sono nati, lì hanno giocato, raccogliendo i regali del mare, conchiglie, rami ben levigati, pietre dalle forme strane e tutte quelle cose che solo i bambini riescono a vedere con gli occhi della fantasia.

Il cielo grigio e carico di nubi sinistre, denominatore comune delle immagini, è un’enfasi del fotografo, pertinente con la narrazione di un contesto di degrado che non si limita, oggi, a ciò che rimane nella sola area di un paese fantasma ma si estende tutto intorno in un susseguirsi di macabre cattedrali dismesse, abbandonate sul territorio come vuoti a perdere, in barba al più volte richiamato principio europeo del “chi inquina paga”.

Un principio che come lo Statuto Regionale siciliano è solo oggetto di beffa quando prescrizioni e cavillose lungaggini burocratiche vanificano le aspettative di giustizia di un popolo che ha pagato e che continua a pagare in termini di salute e sottosviluppo cronici.  Non bastano gli Atti Camera del Parlamento nazionale a sancire l’urgenza degli interventi di bonifica da realizzare (sono passati 25 anni da quando l’area dei comuni di Augusta, Priolo e Melilli è stata dichiarata ad elevato rischio ambientale) e non bastano né le denunce né i processi giunti solo ad affermare la “ragionevole incertezza” sulla individuazione dei responsabili dell’inquinamento delle acque e dei fondali marini,  insieme ai discutibili tentativi (mai  chiari e condivisibili) del Ministero dell’Ambiente di prescrivere le opere di bonifica a carico delle aziende.

Ecco cosa mostrano le immagini di Sipione, brutte ma ancora troppo eleganti ed estetiche per raccontare queste mostruosità tutte italiane. Eppure non possiamo fare a meno di esse, sono importanti e fondamentali per dimostrare l’assurdo che la legge non riesce a dimostrare, per mettere sotto gli occhi di tutti la verità che in quanto tale non può essere nascosta né tanto meno dimenticata, perché non si può sottacere che dietro il pianto di tante ignare famiglie, dietro le macerie lasciate beffardamente in bella mostra su questa terra di nessuno vi sia l’ineluttabile realtà delle montagne di leggi, delibere, relazioni, documenti, programmi finanziamenti e appalti utili solo al “cerchio magico” entro cui molti vivono agiatamente, alla faccia di chi ha perso il lavoro la salute e la dignità.

Le fotografie di Alberto Sipione su Marina di Melilli sono quindi quel che sono, natura morta.

Un monumento alla sicilianità, alla distruzione gratuita e alla strafottenza di chi continua a negare alla gente i diritti più elementari e inalienabili. Tutto questo a Nord di Siracusa.

A Sud, cioè un metro più in là, Siracusa è un sito UNESCO, Patrimonio dell’Umanità e città dalla forte vocazione turistica. Come fosse un altro luogo, come fosse una città con i  siti archeologici ben conservati e fruibili, come fosse una città pullulante di operatori turistici professionisti e infine come fosse una città bagnata da un mare diverso da quello dove petrolio, metalli pesanti (mercurio e piombo), idrocarburi pesanti ed esaclorobenzene  sono gli ingredienti di un cocktail malefico servito sulle splendide terrazze di Ortigia.  

Per nostra fortuna c’è ancora chi riesce a percepire le note stonate della sinfonia per ipnosi eseguita da sessant’anni a questa parte nel siracusano, per fortuna c’è ancora chi, come Alberto Sipione ha il coraggio di guardare la faccia vera di un territorio che non è mai stato patrimonio dei suoi stessi abitanti, figuriamoci dell’Umanità. 

5 settembre - 25 ottobre 2015

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