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EFFETTO SIRACUSA

/la ripresa della città

EFFETTO fotografia

 

di Gino Carpi

 

 

    

FOTOTECA SIRACUSANA riapre i battenti nella nuova sede di Largo Empedocle, 9 a Siracusa -  Borgata, sabato 17 marzo alle ore 18,30, con la inaugurazione della mostra di fotografia contemporanea intitolata “EFFETTO SIRACUSA – La ripresa della città “, un compendio di lavori fotografici, quattro portfolio, dedicati alla nostra città e realizzati da quattro artisti della fotografia: Luciano Cannella, Sabrina Di Mercurio, Alberto Sipione e Alfio Torrisi. 

Con questa collettiva di fotografia si inaugura la nuova sede di Fototeca Siracusana, un traguardo fortemente voluto dall'amico Salvo Zito, la realizzazione di uno spazio/arte (fotografia), “semplice e possibile”, alternativo ai vari cerimoniali espositivi che si svolgono in altri ambiti privilegiati ed istituzionali.

Nella forma di Associazione no-profit, Fototeca Siracusana intende raccogliere la partecipazione di tuttti coloro che a vario titolo si interessano di Fotografia, dalla quella storica o vintage a quella contemporanea , dai rari cultori della pratica in Camera Oscura, agli esperti di Photoshop.

Auguri, quindi, per il futuro di Fototeca Siracusana affinchè con il suo pur piccolo contributo possa essere utile a far meglio vivere una bellissima città come Siracusa.

 

17 marzo - 14 aprile 2018

QUATTRO QUARTETTI

Una nota di lettura sulla mostra fotografica Effetto Siracusa. La ripresa della città

di Salvo Sequenzia

 

Guarda, ora svaniscono,                                               

i volti e i luoghi, insieme a chi, come poteva, li amò,

per diventare nuovi, trasfigurati, in un’altra trama.

 

T. S. Eliot, Quattro quartetti

 

Quattro fotografi, quattro sguardi, quattro narrazioni, quattro modi di riprendere il mondo attraverso un luogo, una città - Siracusa -  con le sue definizioni, le sue emergenze, le sue trame.

La mostra fotografica  Effetto Siracusa. La ripresa della città, che inaugura le iniziative di Fototeca Siracusana nella sua nuova sede - uno spazio ospitale, versatile, aperto ad accogliere gli stimoli, i fermenti e le energie che questa parte della Sicilia esprime da sempre e che Fototeca Siracusana è riuscita, in questi anni, a calamitare e a innestare felicemente in progetto culturale rigoroso, coerente, appassionato – vuole essere, nell’intenzione del suo curatore, Salvo Zito, un momento di rappresentazione, di comunicazione, di riflessione e di condivisione del luogo Siracusa nell’effetto che lo sguardo di quattro fotografi ha prodotto e consegnato attraverso il medium fotografico.

Già nel suo titolo, allusivo e inferenziale,  questa esposizione rivela le ricche connotazioni soggiacenti alla sua complessa partitura.

Effetto notte, film di Francois Truffaut uscito nel 1973, racconta la storia di un film da girare e di una troupe cinematografica che lo sta girando. La pellicola del grande cineasta francese è un omaggio alla tradizione cinematografica e culturale occidentale che, attraverso una travagliata e poetica narrazione filmica, il regista intende salvare in un momento di riflessione da consegnare al pubblico e all’umanità che vuole essere anche un atto di denuncia contro il degrado e l’impoverimento della civiltà.

Come nelle intenzioni palesate da Truffaut in Effetto notte, così nelle intenzioni del curatore di Effetto Siracusa la narrazione fotografica diviene strumento per raccontare la storia di un luogo colto nelle contraddizioni e nelle pregnanze che lo caratterizzano dallo sguardo di Luciano Cannella, Sabrina Di Mercurio, Alberto Sipione e Alfio Torrisi, i quattro autori invitati ad esporre.

Effetto. Dal verbo latino efficere, vale a dire compiere, eseguire, realizzare, fare concretamente. Il termine sta a indicare un’azione compiuta dal soggetto i cui risultati sono evidenti nella realtà.

Giovanni Lista, raffinato studioso dei linguaggi delle avanguardie del Novecento, in un saggio (1994) dedicato al rapporto tra scultura e fotografia in Medardo Rosso, passando in rassegna l’evoluzione creativa dello scultore torinese afferma che, a proposito della fotografia, l’artista  preferiva usare la parola  «effetto», al posto del termine, più inflazionato,  «impressione».

Il medium fotografico, guardato dalla prospettiva fenomenologica di Arnheim esposta in Arte e percezione visiva (1954), rimanda al “concetto rappresentativo” racchiuso in ogni immagine in quanto «effetto proiettivo di una dinamica percettiva» del reale. Il processo fotografico, allora, costituisce «un’asserzione simbolica a proposito della condizione umana» che si realizza nello spazio e nel tempo della storia e nella coscienza di un individuo e dell’umanità.

In tal senso, una delle principali preoccupazioni del curatore di Effetto Siracusa è stata quella di costruire, attraverso il montaggio della mostra, un universo continuo e omogeneo a partire dalle immagini fotografiche selezionate, discontinue e frammentarie in quanto esito del lavoro di quattro autori fra loro diversi per esperienza, visione del mondo, poetica e tecnica.

L’esposizione viene così a definire un vero e proprio continuum testuale nel quale si deposita la materia narrativa di ciascun fotografo, conferendo forma e leggibilità alla partitura delle immagini e aprendola ad accogliere il punto di vista dello spettatore, mai passivo e mosso da una istanza cooperativa - la intentio spectatoris – punto di incontro, nell’elaborazione interpretativa che ne scaturisce, fra la poetica dell’autore e i mille plateaux dell’opera, secondo le ben nota teorizzazione della scuola semiologica di Bologna ( Eco, 1962, 1979, 1990).

All’interno di questa ricca partitura teorica vengono dunque a confluire,  in un quartetto raffinato e simbiotico, i temi e i linguaggi delle opere dei quattro autori.

L’ideazione e il progetto di allestimento di Effetto Siracusa è il risultato di un montaggio dove l’ordine del discorso, lo spazio narrativo e la costruzione visiva concorrono a comporre un percorso, scandito in quattro momenti espositivi, che Salvo Zito, interpretando acutamente il lavoro degli autori proposti,  ha ritenuto “nodali” per porre una riflessione critica su alcuni aspetti salienti della fotografia contemporanea, artificio trasparente, medium indiziale, testualità espansa, testimone scomodo (Benjamin, 1955), a lungo evaso, della realtà, del vissuto e della coscienza. La mostra diviene anche un momento per avviare un discorso plurale e non retorico – attraverso il medium fotografico - dove la fotografia può raccontare una storia, sostenere una tesi, affermare uno sguardo di bellezza e di civiltà sul luogo in cui viviamo, cogliendone, in una intima contraddizione, splendore e disastro.

 

 

 

 

 

 

 

III

Alberto Sipione riprende, con le sue fotografie, un percorso dentro la «città  che sale» (Balla, 1911) tracciando la geografia fragile del paesaggio urbano siracusano, paesaggio verticale dell’abbandono, paesaggio ordinario e discontinuo che può ben accostarsi alle «simmetrie senz’anima» del fotografo di Mario De Ayguavives.  nel quale ragioni estranee all’architettura e all’estetica configurano le forme edilizie di un paesaggio marginale, ibrido e confuso, e di un paesaggio abusivo, per scarto, opulenza o accumulo.

Gli agglomerati prodotti dall’ostensione, dal bisogno e dalla segregazione sociale vengono ripresi da Sipione in sembianze di gelidi telamoni senz’anima, edifici in cui viene espresso il concetto di degrado ambientale e sociale e, insieme, di scardinamento, esclusione, uscita dal mondo. Frammento e sistema costituiscono i cardini della poetica di Sipione, che rilegge la storia della fotografia di paesaggio contemporanea nella lezione di artisti come Andreas Gursky, Thomas Struth, Gabriele Basilico e Francesco Jodice, e che ha evocato in me i disegni di Renzo Vespignani dell’immediato dopoguerra, quando l’artista rappresentava lo squallore del paesaggio urbano di periferia e delle vite di chi lì abitava.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IV

Alfio Torrisi, con le sue fotografie dinamiche, riprende uno dei luoghi simbolo di Siracusa, il mercato del pesce di Ortigia, spazio meridiano nel quale sopravvive la koinè identitaria mediterranea e in cui permangono, riverberandosi, i conflitti e le tensioni della società globale.

Spazio di accoglienza e di inclusione, l’antico mercato del pesce, zona franca e marginale par excellence, agli occhi di Torrisi si tramuta in mobile  fragilissimo fondale che rivendica i caratteri di una forte identità territoriale ed antropologica.

In tal senso, nelle opere di Torrisi assume un valore paradigmatico – tale da non costituire un mero  omaggio celebrativo -  il rimando, più o meno esplicito, al fotodinamismo futurista e alle esperienze fotodinamiche dei fratelli Bragaglia, ma anche alla sfocatura da movimento di Robert Capa, documentata nelle celebri  fotografie sullo sbarco in Normandia,  risultato dello scatto instabile e della successiva stampa frettolosa, e che acquisì, in anni successivi, un valore simbolico importantissimo; o alle immagini del  fotografo russo Alexei Vassiliev, i cui soggetti fluttuano come sospesi richiamando l’angoscia muta dei dipinti di Francis Bacon e le scene surreali delle opere di Samuel Beckett.

Tratto significante degli scatti di Torrisi è la caratteristica che sfrutta l’instabilità della ripresa per conferire alle immagini un effetto di movimento emotivamente coinvolgente che definisce uno «spazio fluttuante», alla stregua di quello individuato da Tommaso Trini (1958) a proposito della spazialità nell’opera di Pollock.

Entro questo spazio fluttuante, disciolto, Torrisi situa la sua esperienza percettiva del mondo, riprendendo la processualità mobile della materia pittorica cara all’impressionismo, una materia densa che esige una «descrizione densa» (Faeta, 2003).

Come il l flâneur di Baudelaire Torrisi coglie, attraverso il suo sguardo, la folla dei passanti, le logge e la bancarelle del mercato, i colori e gli odori che si propagano; come «l'amante della vita universale» egli entra nella folla, riproducendo «la molteplicità della vita e della grazia tremolante di tutti gli elementi della vita stessa» (Baudelaire, 1863). 

I

Luciano Cannella riprende nelle sue immagini la quotidianità mobile a cangiante del reale, nella quale la città si configura come display e dove la moltitudine  scorre come in una successione di frame articolandosi in un continuo processo di debrayage ed embrayage  - di disinnesco e reinnesco enunciativo – dalle sorprendenti «incoerenze» spazio-temporali. Cannella fissa luoghi  e momenti diversi, casuali, residui di una realtà esausta, personaggi secondari che egli incontra nel suo percorso conoscitivo. La sua fotografia è una immagine-movimento (Deleuze, 1983). Osservando gli scatti di Cannella il nostro sguardo ricompone una galleria di posture, di andature, di posizioni e di stati dell’essere sul fondale di un locus vacuus, balneare e vacanziero, dove la città, nella sua assordante assenza, rivendica - nel suo caratterizzarsi come spettro - la sua centralità, il suo dominio, il suo imperium totalizzante. A enumerare tali posture potrebbe venirci in aiuto il celebre passo di Leonardo da Vinci, laddove il grande genio censisce le «diciotto operazioni dell’uomo. Fermezza, movimento, corso, ritto, appoggiato, a sedere, chinato, ginocchioni, giacente, sospeso, portare, esser portato, spingere, tirare, battere, esser battuto, aggravare ed alleggerire» (Leonardo da Vinci, 1495).

L’immagine-movimento di Cannella è caratterizzata da una recursività che chiama in causa il concetto retorico di ecolalia, un “ritornello” visivo in cui lo spazio implica, a sua volta, un “ritornello” relativo al movimento che prevede determinate posture e andature precipitate in spazi che offrono altrettante occasioni per esaurire il possibile e in cui affiora e si coglie  «un momento vicinissimo alla fine» (Deleuze, 1992). 

II

Sabrina Di Mercurio riprende, nella sua opera, il tema della ibridazione e della creolizzazione dell’immagine-corpo e della contaminazione fra  ritratto e paesaggio all’interno di una poetica del frammento e del mosaico assai raffinata e seducente.

La metamorfosi del ritratto è sempre stata al centro delle attenzioni artistiche dal Barocco alle post-avanguardie, sino alle recenti esperienze del camouflage  e della ritrattistica fotografica contemporanea, da Mapplethorpe, a Lorna Simpson, da Daniel Gordon a Steve McCurry.

La dissolvenza dell’identità, l’intermittenza tra più physis, – umana o materiale  – e la decostruzione/costruzione del volto espanso richiamano, entro lo spazio enunciativo di Sabrina Di Mercurio, le enunciazioni del collage e del camouflage.

Sul piano dell’espressione, le componenti plastiche che le fotografie di Sabrina Di Mercurio mettono in evidenza sono, per esempio, ora i contorni, ora il modellato; sul piano del contenuto si produce una contraddizione visiva. La salienza di questo conflitto è dovuta alla divergenza non tra i due elementi  in sé – volto/frammento – ma tra i processi costitutivi che li caratterizzano: il volto, eroso,  diviene sagoma; il frammento di monumento, decontestualizzato, diviene protesi.

In una prospettiva di analisi della poetica fotografica di Sabrina Di Mercurio centrale, a parer mio, è la strategia di ricerca suggerita da Michel Foucault (1971) a proposito del concetto di travestimento e di contaminazione nelle immagini: l’atto creativo diviene “apertura” al mondo in una operazione di fusione in cui il vivente si unisce al non-vivente secondo un principio di ri-generazione che vivifica ed attualizza, portandoli a nuova vita attraverso la potenza dell’immagine, il soggetto e l’oggetto.

La fotografia di Sabrina di Mercurio non è facile da definire.

Come nel genere dell’arte performativa, essa  consiste nell’insieme di testimonianze che ne recano traccia, ma in cui l’effetto di perdita è più stringente, perché programmato e inscritto entro dinamiche di memoria e di oblio che caratterizzano il discorso sui media digitali e le esperienze di realtà aumentata, di trasparenza e di rimediazione (Bolter-Grusin, 1999) laddove il vecchio medium tende a mimetizzarsi,  “rimediato”, nel nuovo medium  digitale attraverso la retorica del discorso legato a stilemi tradizionali come la fotografia di ritratto o la fotografia di paesaggio, che vengono incorporati sino a creare una nuova e inedita immagine in cui balugina un sofisticato surrealismo assai vicino alle sperimentazioni   Kaveh Hosseini Steppenwolf – fotografo iraniano che combina sapientemente la fotografia tradizionale con l’arte del fotoritocco al computer -  che Sabrina Di Mercurio utilizza per riprendersi e custodire, nelle sue opere, la poesia di un luogo disseminata nei lacerti di un volto e nei reperti della memoria.

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